Le dimensioni dello stile emozionale per navigare le emozioni

Introduzione

Oggi vi parlerò di un libro che mi ha particolarmente stupito: “La vita emotiva del cervello: Come imparare a conoscerla e a cambiarla attraverso la consapevolezza”. Iniziamo a introdurre chi lo ha scritto, perché come capirete, stiamo parlando di un esperto nel mondo della psicologia e delle neuroscienze. Wow!

Richard Davidson, Professore di Psicologia e Psichiatria alla Università del WisconsinMadison (dal 1984), è il Fondatore e Direttore del Center for Healthy Minds, sempre nella città di Madison. Durante la sua carriera ha pubblicato più di 375 articoli scientifici e 14 libri.

Il focus delle sue attività di studioso è legato alle basi neurali delle emozioni e dello stile emozionale. All’interno di un mondo accademico dove l’aspetto emozionale veniva sempre censurato, si accorse dell’importanza di approfondire i legami tra aree del cervello, stile emozionale ed emozioni ed ebbe il coraggio di approfondire attraverso studi scientifici queste connessioni.

Era certo che fosse possibile individuare nel cervello le aree che venivano e vengono coinvolte nei processi emozionali che potevano rendere più semplice o più difficile affrontare le sfide della vita personale e lavorativa.

Con questo scopo in testa, pur non avendo ancora a disposizione tutte le tecnologie che oggi esistono, riuscì poco alla volta a dimostrare quanto le emozioni e le nostre strategie per navigarle potessero influenzare il nostro modo di agire e a individuare le aree del cervello che venivano di volta in volta attivate.

Questo aspetto è quello che, secondo me, differenzia questo modello dai tanti presenti in circolazione. Ogni punto affrontato dagli studi organizzati da Richard Davidson è analizzato sia in termini pratici, osservando comportamenti agiti, sia in termini neuroscientifici, riuscendo a distinguere l’azione specifica di diverse aree attive nel nostro cervello (dalla neocorteccia al rettiliano passando per il sistema limbico).

Durante l’evolversi degli studi e delle tecnologie a sua disposizione, si accorse che nessuna persona poteva realmente dirsi uguale a un’altra (W la diversità). Ogni persona possedeva uno stile emozionale differente e poteva essere riconosciuto analizzando 6 dimensioni, connesse con diverse aree specifiche del cervello.

Le 6 dimensioni dello stile emozionale

Entriamo così nel magico mondo dello stile emozionale di Davidson. Richard ha individuato ben 6 dimensioni che potevano generare differenze pratiche nel comportamento umano. Ogni dimensione era caratterizzata da una polarità specifica.

Qui di seguito, vi descrivo ciascuna delle 6 aree:

  1. Resilienza (Resiliency): misura il tempo occorrente per riprendersi da una situazione difficile.
  2. Prospettiva o visione del futuro (outlook): misura quanto a lungo siamo in grado di sostenere una emozione positiva.
  3. Intuito Sociale (Social Intuition): misura la capacità di percepire i segnali sociali che provengono dalle persone intorno a noi.
  4. Autoconsapevolezza (Self Awareness): misura quanto riusciamo a percepire le sensazioni corporee che riflettono una emozione o uno stato d’animo.
  5. Sensibilità al contesto (Sensitivity to Context): misura la capacità di regolare le nostre risposte emotive per prendere in considerazione il contesto sociale in cui siamo inseriti.
  6. Attenzione (Attention): misura la capacità di focalizzarsi con chiarezza e precisione su di una attività.

Ogni persona è l’espressione di ciascuna di queste dimensioni combinate. Ciascuno di noi può avere livelli alti di una dimensione e bassi di un’altra. È il mix a determinare le modalità d’azione nell’ambiente in cui viviamo.

Magari, in questo momento vi sarete chiesti se esiste quindi un mix migliore o se bisogna posizionarsi in alto all’interno di ogni dimensione. Richard Davidson mette subito in evidenza che non esiste un profilo migliore in assoluto, ma che dipende dalle sfide che la persona affronta nel suo contesto d’azione.

Prima di approfondire queste differenze, provo a sintetizzare quanto ho compreso di ogni dimensione e le loro relazioni con l’attività cerebrale.

1. Resilienza

La resilienza descrive la nostra capacità di reagire alle situazioni complesse e dure che la vita può metterci di fronte. Spesso nel passato è stata descritta come una capacità innata, influenzata dalla società, dai genitori e dagli insegnanti soprattutto nei primi anni di vita. Mentre gli studi hanno mostrato altro.

Nella pratica, ci dice se siamo in grado di buttarci alle spalle le battute d’arresto o se queste ci possano far crollare. Quando siamo davanti a una sfida emotiva, ci affidiamo alla tenacia e determinazione per risolvere e ripartire o ci sentiamo inermi e finiamo per arrenderci?

Per fare un esempio pratico, quando affrontiamo una discussione tosta con il partner, come reagiamo emotivamente? Sentiamo che il resto della giornata è compromesso o siamo in grado di riprenderci velocemente e metterci tutto alle spalle?

Le persone che si collocano all’estremo positivo di questa dimensione sono i Veloci a Riprendersi dalle avversità (Fast to Recover), mentre all’estremo opposto abbiamo i Lenti a Riprendersi dalle avversità.

Ma da un punto di vista neuroscientifico cosa accade nel cervello?

Secondo i risultati degli studi realizzati da neuroscienziato Richard J. Davidson, la resilienza è caratterizzata da una maggiore attivazione nella corteccia prefrontale sinistra rispetto alla destra. Una mancanza di resilienza deriva, invece, da un’attivazione più elevata nella corteccia prefrontale destra con una minore attivazione della sinistra.

In sostanza, la prima grande novità è che le emozioni sono legate alla corteccia e non solo al famoso sistema limbico. Questo aspetto è già di per sé una grandissima rivoluzione nell’ambito delle neuroscienze, perché rende meno distintiva la divisione del cervello in 3 parti (neocorteccia, sistema limbico e rettiliano).

La corteccia prefrontale, nello specifico, è nota soprattutto per essere la sede delle attività cognitive più elevate come il giudizio, la pianificazione e altre funzioni esecutive. Eppure, entra in gioco anche nel processare gli eventi che stiamo affrontando da un punto di vista emozionale.

Se ci pensate, già il fatto che processi il giudizio, ci può fare sorgere qualche dubbio sulla relazione con le emozioni. Ogni giudizio, per quanto razionale possa sembrare, ha sempre una componente emozionale che lo influenza.

Davidson ha così dimostrato che l’attivazione della corteccia prefrontale sinistra abbrevia il periodo di attivazione dell’amigdala, consentendo al cervello di riprendersi da esperienze che possono essere descritte come scioccanti.

Da ciò il team di scienziati dedusse che la corteccia prefrontale sinistra invia segnali inibitori all’amigdala, come mostra l’illustrazione poco sotto:

Tra l’altro, gli studi confermarono che quanta più sostanza bianca (gli assoni che collegano un neurone e l’altro) si trova tra corteccia prefrontale amigdala tanto maggiore è la resilienza della persona, perché grazie a questa sostanza bianca che aumenta la conduzione dei segnali elettrici la corteccia prefrontale riduce maggiormente l’attivazione dell’amigdala permettendo di elaborare più velocemente piani d’azione per uscire dalla situazione che si sta affrontando.

Dunque, la sede cerebrale della ragione e delle funzioni cognitive d’ordine superiore riveste un ruolo importante per le emozioni, quanto quello svolto dal sistema limbico. Bello, no?

Nel mondo del lavoro, spesso si nomina la resilienza come fattore chiave per il successo. Dallo studio di Davidson emerge che effettivamente è una dimensione chiave per garantire l’impegno e la reazione agli urti. Difficilmente nella vita non ne subiremo per cui è intuibile quanto sia vantaggiosa la resilienza.

Esistono però anche degli svantaggi a essere troppo resilienti. Sembra che nulla ci interessi veramente, perché rischiamo di non dare peso alcuno a ciò che rischiamo di perdere o perdiamo per davvero. Magari essere in grado di passare da una persona all’altra senza soffermarsi mai sulla tristezza che potremmo provare ci fa sentire più forti, ma può renderci percepiti come persone fredde e poco emozionali per quanto potenzialmente resilienti.

Essere Lenti a riprendersi ci rende sicuramente sensibili ed emozionali, persone che possono attirare chi ha voglia di dare una mano e potrebbe aver voglia di venirci in aiuto, ma lo svantaggio è che spesso le persone che si trovano in questa condizione si sentono talmente nelle sabbie mobili che non fanno nessuno sforzo per uscire da dove si sono immersi e dopo un po’ anche chi ha offerto aiuto smette di interessarsi a loro.

2. Prospettiva o Visione del futuro.

La Prospettiva è la dimensione che misura la capacità di rimanere ottimisti e di conservare le emozioni positive nel tempo. Potreste considerarle il complemento della Resilienza, che indica quanto rapidamente vi riprendete dalle avversità.

La Prospettiva si differenzia dalla Resilienza (anche se per certi aspetti sembrano simili e agiscono spessissimo insieme) perché indica quanto e quanto a lungo siete in grado di sostenere le emozioni positive.

Per capire questa dimensione, basta porsi alcune domande sul nostro modo di interpretare eventi e vita:

  • Ci capita raramente di lasciare che le emozioni negative ci condizionino nel tempo?
  • Manteniamo un elevato livello di energia e di impegno anche quando le cose non vanno come previsto?
  • Non siamo in grado di reggere lo stress che viviamo, perché pensiamo sempre che non riusciremo a farcela?

Da un lato, possiamo sentirci afflitti e negativi, incapaci di vedere qualsiasi positività nel lungo periodo. Ossia, nel breve possiamo anche sentire che qualcosa è bello, ma dopo poco il nostro sistema neuronale riduce l’attivazione dei neuroni e l’emozione si spegne, facendoci cadere subito in balia delle nostre onde emotive negative.

Dall’altro lato, invece possiamo sentire che possiamo farcela e che tutto in un modo o nell’altro si potrà sistemare. Questo renderà più semplice vivere le emozioni positive, sia quando ci accade realmente qualcosa di bello, sia quando ci concentriamo su pensieri capaci di far nascere emozioni positive, come, ad esempio, quando pensiamo a qualcuno che amiamo o a cui vogliamo davvero bene (provateci anche ora mentre state leggendo).

Il fattore chiave, quindi, non è la sensazione di felicità momentanea. Nella maggior parte dei casi analizzati, anche le persone diagnosticate come depresse hanno attiva nel cervello la possibilità di provare attimi di felicità che coinvolgono il Nucleo Accumbens .

Questo piccolo gruppo di neuroni che si trovano all’interno dello Striato Ventrale è responsabile della produzione di Dopamina, che induce la nostra energia motivazionale e il senso di gratificazione e piacere e delle Endorfine, gli oppiacei endogeni, che alimentano il nostro senso del desiderio provocando euforia e riduzione del cortisolo, l’ormone dello stress).

Il fattore distintivo di chi ha una Prospettiva positiva è legato quindi alla durata delle sensazioni positive. Cioè, quanto siamo in grado di mantenere la felicità nel tempo. Questo aspetto ha un forte effetto sulla vostra visione generale del futuro.

Nella pratica, chi è capace di trattenere l’emozione positiva nel tempo tende a essere considerato ottimista, mentre una persona che mantiene la sensazione di felicità solo pochi microsecondi si sentirà cronicamente triste e pessimista.

Nel mondo del lavoro, avere una prospettiva positiva genera il vantaggio di reagire più facilmente ai rifiuti (anche perché ce li scordiamo subito) e di mantenere le energie che ci motivano più a lungo nel tempo. Il potenziale svantaggio di essere troppo positivi è legato alla non capacità di mettere in evidenza i rischi delle scelte che facciamo, essendo convinti di riuscire sempre e comunque a farcela.

Avere invece una prospettiva negativa ha il vantaggio di farci calcolare molto bene i rischi, individuando facilmente i punti in cui qualcosa possa non andare per il verso giusto. Lo svantaggio che, allo stesso tempo, ne deriva è che vedendo troppi rischi e non riuscendo a mantenere il senso di gratificazione e di energia che serve per mantenere nel tempo gli sforzi.

3. Intuito Sociale.

L’intuito sociale è una dimensione fondamentale dello Stile Emozionale perché rappresenta la capacità di comprendere ciò che è socialmente appropriato. Per poter governare questa dimensione, dobbiamo utilizzare i nostri sensi per elaborare i segnali che ci arrivano dalle persone con cui interagiamo.

È la dimensione che ci rende capaci di leggere il linguaggio del corpo delle persone che abbiamo di fronte (occhi, espressioni, voce, posture, gestualità …) e comprenderne il vissuto emotivo. Ci aiuta a capire quando qualcuno vuole essere lasciato in pace o se vuole parlare.

Ovviamente, chi riesce a leggere facilmente i segnali è dotato di Intuito Sociale, mentre coloro che si ritrovano stupiti davanti a reazioni non previste vengono collocati nell’estremo Perplesso. Ciascuno dei due estremi riflette differenze evidenti nell’attività e nella connettività del cervello.

La mancanza di intuito sociale, l’estremo Perplesso, deriva da bassi livelli di attivazione nel giro fusiforme e da alti livelli di attivazione nell’amigdala, come mostra il diagramma seguente:

I Socialmente Intuitivi hanno un’alta attività nel giro fusiforme e un’attività bassa o moderata nell’amigdala. È l’attività della amigdala a spiegare la diversa sensibilità sociale tra individui. Infatti, molti studi hanno concentrato la loro attenzione su una molecola che riduce la sua attività: l’ormone ossitocina.

Questa molecola è associata a sentimenti di amore, dedizione e attaccamento, perché riducendo l’attività amigdalica rende possibile dedicarsi allo sviluppo di rapporti umani connessi e stretti. E questo vale anche per i nostri amici animali.   

Qui di seguito, possiamo testare questa serie di domande per comprendere meglio dove potremmo probabilmente collocarci:

  • Riusciamo a leggere il linguaggio del corpo degli altri e i loro toni della voce come un libro aperto?
  • Inferiamo quando e se le persone hanno voglia di parlare o quando e se vogliono essere lasciate in pace, e sono vicine al punto di rottura o se sono interessate a qualcosa o qualcuno?
  • Rimaniamo perplessi (per non dire ciechi a volte) nei confronti delle indicazioni esteriori dello stato mentale o emozionale delle persone?

Se siamo capaci di cogliere i segnali, ci troveremo all’estremo positivo di questo continuum dove si trovano gli Intuitivi Sociali, se invece ci sentiamo ciechi o per così dire nella nebbia quando interagiamo con l’altro, è probabile che ci troviamo sul lato dei Perplessi.

Una persona caratterizzata da un basso Intuito Sociale e inserita in un team di vendite può avere delle difficoltà a cogliere i segnali deboli provenienti dal cliente. Questo aspetto può avere il vantaggio di rendere più decisa la chiusura di ogni trattativa, perché non riconosciamo i segnali di rifiuto, ma può anche rendere meno efficace la nostra taratura della propria comunicazione sull’altro.

Dall’altro alto, un elevato Intuito Sociale può mettere la persona in condizione di riconoscere anche i segnali più deboli che provengono dalle persone intorno a noi, con il vantaggio di comprendere meglio le loro esigenze, ma dall’altro lato, il rischio è di non riuscire a portare mai in chiusura la trattativa.

L’Auto-Consapevolezza

La dimensione Auto-Consapevolezza rappresenta la nostra capacità di percepire le sensazioni fisiche che riflettono le nostre emozioni. Per ottenere questo risultato, una parte del cervello svolge un ruolo fondamentale. Questa regione è l’Insula. La trovate evidenziata nella figura qui sotto:

L’auto-consapevolezza deriva dal fatto che l’Insula riceve segnali dagli organi viscerali e ci rende più sensibili a noi stessi, ai segnali che provengono dal nostro corpo come il battito cardiaco (uno degli esercizi per capire quanto siamo consapevoli è proprio essere capaci di cogliere il numero dei battiti in un dato istante).

Alti livelli di attività in questa parte del cervello favoriscono alti livelli di Autoconsapevolezza, mentre un’attività più bassa indica bassi livelli di Autoconsapevolezza.

L’Insula è situata tra i lobi temporali e quelli frontali e contiene quella che è chiamata la “mappa viscerotopica” del corpo. Si tratta di una mappa che associa un punto preciso a ciascuno degli organi viscerali, quali: cuore, fegato, colon, organi sessuali, polmoni, stomaco, reni, e così via.

Si tratta di una vera e propria “mappa” delle viscere, simile a quella presente nella corteccia somatosensoriale, dove ciascun punto della pelle ha una corrispondenza diretta nella mappa. Dalla fronte alle dita dei piedi, ogni spazio è cablato nella corteccia e permette di far viaggiare input e output in modo molto preciso.

Non ci può sorprendere quindi che la grandezza dell’Insula possa essere una rappresentazione efficace della capacità di una persona di essere auto-consapevole. Coloro che riescono, per esempio, a essere consapevoli del proprio battito cardiaco hanno anche un’Insula più sviluppata, quindi, più grande.

Chi invece rimane all’oscuro dei segnali del proprio corpo e delle emozioni che prova tende ad avere un’Insula più piccola e con connessioni con il corpo meno ricche. Quindi potreste pensare che sia sempre bello avere un’Insula grande. Invece, come spesso accade anche il troppo stroppia.

Coloro che hanno allenato troppo questa parte del corpo o sono nati con una predisposizione a un’Insula più grande rischiano di rimanere paralizzati grazie ai troppi segnali che ricevono dal corpo. Alcune patologie come gli attacchi di panico o l’ipocondria sono spesso associati a un’Insula troppo sviluppata.

Durante gli studi sulla meditazione, venne fuori un ulteriore aspetto legato al funzionamento dell’Insula. Mentre verificavano quali aree del cervello si attivassero durante una sessione di meditazione sulla compassione, si accorsero che l’empatia si manifestava maggiormente quando vi erano picchi nell’attivazione dell’Insula.

Un altro aspetto che emerse e fu molto interessante è legato alla presenza di una attivazione di reti di neuroni che produceva una maggiore attivazione di onde gamma nel cervello (che rappresentano la nostra capacità di esercitare funzioni superiori come la coscienza).

Queste onde aumentavano notevolmente durante le meditazioni e producevano una maggiore possibilità di divenire consapevoli. Tra l’altro, fatto ancora più interessante, queste onde rimanevano generalmente più attive nelle persone che praticavano più spesso forme di meditazione consapevole.

Anche in questo caso ci possono essere delle domande che ci aiutano a comprendere il nostro livello di Auto-consapevolezza:

Siamo consapevoli dei nostri pensieri e sentimenti e ci sentiamo in sintonia con i messaggi che il corpo ci manda?

  • Agiamo e reagiamo senza sapere quello che stiamo facendo, dal momento che il nostro sé interiore è opaco alla mente cosciente?
  • Ci capita di ricevere feedback dalle persone che ci domandano come mai non ci guardiamo dentro?
  • Chi ci sta intorno ci chiede spesso perché siamo così incapaci di percepire il fatto che ci sentiamo ansiosi, gelosi, impazienti o che comportiamo come fossimo minacciati?

All’estremo positivo di questo spettro si collocano gli Auto-Consapevoli; dall’altra parte gli I Non Consapevoli o Oscuri a se stessi.

Sensibilità al Contesto

La Sensibilità al contesto è la nostra capacità di modulare le risposte emotive tenendo conto del contesto in cui ci troviamo. Questa dimensione permette alle persone di distinguere le regole da un contesto all’altro e di rispondere in modo adeguato.

Il problema è che non tutti sono capaci di cogliere i segnali di contesto, di leggere cosa sia appropriato o cosa invece vada evitato. Vista l’importanza di questa capacità, il cervello è stato dotato di un sistema che aiuta la mappatura del contesto: l’Ippocampo.

Infatti, è proprio l’Ippocampo a permetterci di distinguere un contesto conosciuto da uno sconosciuto e a determinare quali siano le regole del gioco (sociale), come evidenziato nella figura seguente:

L’Ippocampo è molto più noto per il suo ruolo nella formazione di ricordi a lungo termine e nel loro richiamo alla mente all’occorrenza. Funziona, infatti, come un timbro che serve per archiviare le informazioni semantiche ed emozionali al fine di recuperarle nel modo più utile quando servono.

L’ippocampo ha, però, anche la funzione di adattare il comportamento al contesto. Quindi, può essere facile intuire che una bassa attività dell’Ippocampo sia una caratteristica delle persone che si trovano all’estremo negativo della Sensibilità al contesto, altrimenti definite come Fuori sintonia.

Quando invece una persona ha una alta attività dell’Ippocampo, diventa capace di leggere e sentire il contesto, utilizzando con maggiore facilità le regole sociali. Queste persone si trovano all’altro estremo e che abbiamo Davidson chiama Sintonizzato.

Anche per questa dimensione abbiamo alcune domande che possono aiutarci a leggere quanto siamo polarizzati tra i due estremi:

  • Ci sentiamo capaci di fare nostre le regole convenzionali della interazione sociale tanto da evitare di raccontare al vostro capo la stessa barzelletta sporca che avete raccontato a un amico?
  • Riusciamo a trattenerci dall’abbordare una persona durante un funerale?
  • Ci sorprendiamo tutte le volte che le persone intorno a noi ci dicono che il nostro comportamento è inappropriato?

Se ci sentiamo di essere capaci di leggere i diversi contesti in cui viviamo ed essere capaci di adattare il comportamento a ciascuno di essi possiamo porci verso l’estremo positivo della dimensione Sensibilità al Contesto, Sintonizzati (Tuned In), altrimenti, è facile che ci siamo Fuori Contesto (Tuned Out).

Attenzione

Siamo giunti all’ultima dimensione. L’Attenzione misura l’intensità e la chiarezza con cui siamo in grado di focalizzarci su una cosa, un’attività, un certo oggetto, lasciando sullo sfondo tutto il resto che non serve in quel determinato momento.

Le persone sono in grado di concentrare l’attenzione per mezzo di due meccanismi correlati. Il primo consiste nell’incrementare l’intensità dei segnali nel canale che ci interessa. Possiamo ad esempio estraniarci dalla nostra realtà circostante per leggere con attenzione un libro. I segnali visivi dell’immagine dei caratteri di stampa diventeranno il primo piano.

Il secondo meccanismo consiste nell’impedire l’accesso ai segnali dei canali che non ci interessano. Le nostre mani che reggono il libro o l’ebook reader verranno defocalizzate per rendere più semplice la lettura.  

Spesso usiamo entrambe queste strategie insieme. Possiamo ricordarci facilmente una conversazione fatta con una persona all’interno di un ristorante rumoroso e affollato. Per quanto ci fosse rumore, siamo riusciti a parlare e a conversare senza troppi problemi. Il mondo intorno l’abbiamo declassato e abbiamo concentrato le risorse su ciò che era davvero importante.

Ma come abbiamo fatto? Abbiamo “alzato il volume” della sua voce e simultaneamente abbiamo escluso i rumori provenienti dai tavoli circostanti.

Si tratta di un’abilità di cui disponiamo fin da piccini. Infatti, persino i neonati possiedono una capacità di attenzione: sono capaci di focalizzarsi sul volto della madre e di ignorare le distrazioni provenienti da altre fonti sensoriali.

L’attenzione ha inoltre due forme che risultano rilevanti per comprendere bene questa dimensione dello Stile Emozionale: l’attenzione selettiva e una consapevolezza aperta, non giudicante.

L’attenzione selettiva sta a indicare la decisione conscia di focalizzarsi in modo selettivo su certi aspetti del proprio ambiente e di ignorarne altri. Quando avviene questa completa sincronizzazione tra attenzione e attività svolta, si manifesta una sorta di “aggancio di fase”.

L’“aggancio di fase” sta a significare che l’attività cerebrale si sincronizza con gli stimoli esterni su cui stiamo lavorando e l’attenzione così si focalizza in modo stabile. Questo aggancio, scoprì Davidson, riguarda solamente i segnali provenienti dall’area prefrontale, non da altre zone del cervello. Questo fatto rese ancora più forte la connessione tra corteccia prefrontale e regolazione dell’attenzione.

Il secondo fattore che influenza l’attenzione è la consapevolezza aperta e non giudicante. Possedere questo tipo di consapevolezza richiede un equilibrio emozionale e mentale che non ci faccia rimanere bloccati su uno stimolo che ha catturato la tutta la nostra attenzione ma che ci renda aperti a tutti gli stimoli che possono comunque arrivare e interessarci per quel che stiamo facendo.

Ecco qui alcune domande che possono rendere possibile la comprensione del nostro livello di attivazione di questa dimensione:

  • Siamo in grado di schermarci dalle emozioni che proviamo o da altre distrazioni e rimanere focalizzati?
  • Siamo capaci di immergerci in un film o in un video game da non notare che il cane ci , finché non fa la pipì sul tappeto?
  • I nostri pensieri veleggiano e si spostano dal compito che avete davanti alla discussione con il nostro partner o all’ansia che vi procura l’imminente presentazione che dovete fare al lavoro?

Su questa dimensione collochiamo i Focalizzati all’estremo positivo e i Non Focalizzati all’estremo negativo.

Nel mondo del lavoro è molto importante essere dotati di questa dimensione, perché porta con sé il vantaggio di riuscire a focalizzare la mente anche all’interno di open space e durante le riunioni on line.

Gli stimoli che colpiscono l’attenzione oggi sono molteplici e serve sempre di più essere allenati a togliere segnali che in quel momento possono essere distraenti. Lo svantaggio di essere troppo attenti è legato all’incapacità di distaccarsi quando, ad esempio, serve rilassarsi e prendersi una pausa.

Una bassa attenzione ci fa essere invece più liberi nel vivere momenti di relax, ma comporterà come svantaggio un aumento consistente nella durata delle attività da svolgere, perché le distrazioni porteranno con sé l’attenzione e servirà tantissima energia per riportare il focus su ciò che si deve in quel momento fare.

Lo stile emozionale può svilupparsi

Dopo questo importante excursus su ciascuno dei 6 stili, voglio dedicare spazio a un’altra importantissima conferma che può essere ritrovata all’interno del libro “La vita emotiva del cervello”. Le nostre strutture cerebrali sono dotate di neuroplasticità per cui le connessioni cambiano nel tempo aumentando o riducendosi a seconda degli stimoli che gli diamo.

Il nostro DNA, spesso ritenuto immutabile, incredibilmente, può cambiare ed evolvere, può disattivare funzioni o attivarne di nuove. L’epigenetica sta spiegando queste evoluzioni in modo importante e oggi non ci si può più nascondere con la frase “siamo fatti così”.

Non significa che tutto sia semplice, perché l’evoluzione implica degli sforzi costanti. Ma la questione che più mi preme sottolineare è la possibilità di evoluzione che riguarda ciascuno di noi. Non possiamo diventare più alti e più belli ahimè! Ma possiamo influenzare tutte le dimensioni dello stile emozionale.

Diventando più consapevoli e godendoci di più la vita.

Non esiste, come dice Davidson uno stile più bello degli altri. Dietro a ogni variazione delle dimensioni ci sono diverse conseguenze piacevoli e spiacevoli. Per cui non fornisce alcuna direzione ottimale. Ma … suggerisce per prima cosa di scoprire da dove partiamo e poi ci incentiva a comprendere quale stile sia  meglio per noi nei contesti in cui scegliamo di vivere.

Probabilmente alcune opere bellissime (e tragiche) di scrittori, artisti, come Tolstoj, Kundera, Van Gogh, …  o altri non sarebbero mai venute fuori così come sono se non avessero avuto una Prospettiva negativa. Alcune persone non sarebbero state così innovative se non avessero posseduto una Resilienza così spiccata.

Però, ognuno di noi è diverso e deve cercare la propria dimensione funzionale. Giusta per noi stessi. A questo punto potrebbe nascervi una domanda: come fare poi a sviluppare le dimensioni che vogliamo cambiare?  

Davidson da questo punto di vista è un grandissimo fautore del training mentale, della mindfulness e della meditazione. Lo è stato a tal punto da studiare insieme a esperti neuroscienziati e monaci Tibetani (grazie alla sua stretta amicizia con il Dalai Lama) l’impatto di queste pratiche nello sviluppo di tutte le dimensioni.

I risultati sono stati sorprendenti. Per prima cosa, egoisticamente, sono stato felice di sapere che non serva aver accumulato 10.000 ore per poter vedere dei risultati. In secondo luogo, mi ha colpito scoprire che bastino 8 settimane di percorso meditativo per avere dei cambiamenti sostanziali in diverse aree del cervello.

Nelle sue ricerche, ha usato una molteplice serie di strumenti diversi come la Risonanza Magnetica, la PET, l’EEG, nonché metodologie relative alla genetica e alla epigenetica. E tutte questi strumenti hanno confermato che l’evoluzione delle persone che lavorano allenando la mente riescono a cambiare la struttura del cervello potenziando delle aree e riducendone delle altre.

Spettacolare no?

Lascio ai più curiosi la lettura di tutti gli esperimenti descritti nel libro. Si tratta di un puro viaggio al centro del pianeta cervello ed emozioni. La scrittura è chiara e semplice per cui tutti possono sperimentarla. Certo servirà molta attenzione focalizzata, perché il numero di informazioni in esso contenute è spaziale!

Un piccolo paragone con i normali sistemi di misurazione della personalità

Davidson distingue molto bene il suo modello dalle normali modalità di assessment della personalità e dei temperamenti delle persone normalmente in uso. Le sue dimensioni sono cablate nel cervello, mentre i temperamenti sono per quanto veritieri delle interpretazioni non collegabili alle strutture celebrali.

È dell’opinione che ogni singola personalità e temperamento rifletta invece una differente combinazione delle sei dimensioni dello Stile Emotivo. Prende, per esempio, i tratti di personalità descritti dal “Big Five”, uno dei sistemi di classificazione standard in psicologia:

  • Apertura verso nuove esperienze,
  • Coscienziosità,
  • Estraversione,
  • Amicalità,
  • Nevroticismo.

Una persona con alti punteggi nell’apertura verso nuove esperienze è assimilabile a una forte Intuizione Sociale, molta Auto-Consapevolezza e tende ad avere una Attenzione ben focalizzata.

Una persona coscienziosa ha una Intuizione Sociale ben sviluppata, una buona Focalizzazione Attentiva ed un’acuta Sensibilità al Contesto.

Una persona estroversa ha buone capacità di Ripresa dalle avversità e quindi si colloca alla estremità del Veloce a Riprendersi sullo spettro della Resilienza. Inoltre mantiene uno sguardo positivo sul futuro (Prospettiva).

Una persona dotata di Amicalità si rapporta con facilità all’altro e ha un alto livello di Sensibilità al Contesto e una forte Resilienza. Inoltre tende a mantenere una visione positiva del futuro (Prospettiva).

Chi ha un alto punteggio nella scala del Nevroticismo tende a riprendersi lentamente dopo le avversità, ha una visione piuttosto catastrofica del futuro (Prospettiva), è relativamente insensibile al contesto e tende ad avere una Attenzione fluttuante.

Cosa mi porto a casa

Chiudo questo articolo specificando quel che mi sono portato a casa:

  • Non esiste uno stile migliore degli altri, ma serve familiarizzare (uno dei significati della parola meditazione in sanscrito) con il proprio per definire quali evoluzioni vogliamo per noi.
  • Ogni dimensione è cablata nel nostro cervello e quindi è potenzialmente allenabile utilizzando training mentale e meditazione (o anche esercizi specifici diversi per ciascuna dimensione)
  • Ognuna dele dimensioni dello stile emozionale descrive un continuum dove le persone si collocano o alle estremità o in mezzo.
  • È la combinazione di dove ci collochiamo su ognuna di queste dimensioni che può comporre il nostro Sile Emotivo complessivo.
  • Cambiare anche solo una delle dimensioni può far cambiare anche l’evoluzione delle altre.

Spero di avervi incuriosito. Si tratta di un libro cardine per chi si occupa di formazione e sviluppo del potenziale. Come insegnanti, come genitori, come formatori, coach o come responsabili di persone, dobbiamo sapere che abbiamo in mano finalmente dati che dimostrano che le azioni che mettiamo in campo possono agire trasformazioni profonde su noi stessi e sugli altri.

Come tutti i superpoteri, dobbiamo conoscerlo e usarlo con responsabilità.

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