Il gusto proibito dello zenzero: potenziale della formazione esperienziale nella storia

Il gusto proibito dello zenzero: potenziale della formazione esperienziale nella storia

Il gusto proibito dello zenzero

Quanto è importante saper leggere la storia per comprendere il futuro?

Tradizione e innovazione come possono comunicare senza cadere in errori di interpretazione?

Cosa può generare la fiducia nella diversità?

Intro

Il 2019 inizia con una lettura speciale. Molto orientale. “Il gusto proibito dello Zenzero” di Jamie Ford mi ha rapito. Ho pianto. Ho riso. Ho gioito. Mi sono sentito disgustato. Al suo interno, vi è un’infinità di materiale da condividere.

L’amore e la fiducia che si instaurano tra due giovani, l’odio verso la razza umana per la propria incapacità di gestire le diversità in modo armonico e generativo, la tristezza dei campi di ricollocamento dove i Giapponesi furono rinchiusi durante la 2° guerra mondiale.

Tutta la rabbia di un figlio che si scontra con i dettami della propria tradizione cinese e l’odio razziale verso i propri vicini giapponesi. Al di là della mia passione per lo zenzero, che mi ha reso simpatico il libro fin dai primi assaggi, la forza di questo libro è insita nella sua capacità di toccare temi profondi senza giudizio.

Jamie Ford, pur non avendo vissuto, in prima persona, gli eventi storici che fanno da sfondo alla storia, è di origine cinese e ha navigato, attraverso il racconto dei suoi parenti, le atmosfere del periodo storico della Seconda Guerra mondiale.

Per me è stato particolare immergermi in questa storia. La Seconda Guerra mondiale, nei nostri racconti scolastici, è sempre stata narrata dal punto di vista dell’Italia e dei paesi europei. Lo stesso evento storico visto dagli occhi di un paese straniero è proprio strano.

Nel 1942, anche negli Stati Uniti si respira un senso di paura. Verso l’Europa da un lato, verso il Giappone dall’altro. Tutto è instabile. Le persone sono guardinghe nei confronti di chi è di cultura differente.

Stiamo parlando di anni particolari, dove l’immigrazione è all’ordine del giorno. Continua. Viaggi della speranza da sud a nord, da est a ovest, dal nulla alla speranza. Percorsi duri che si portano dietro speranze e paure.

Speranza di trovare lavoro e vivere una vita migliore, paura di non trovare abitudini facili da acquisire, tradizioni totalmente differenti e persone con cui è difficile integrarsi. La ricerca della fiducia nel prossimo che passa per la comprensione reciproca delle diversità: cultura, valori, comportamenti, competenze.

La fiducia è la forza che dovrebbe guidare il mondo. Eppure, sembra uno di quegli obiettivi che si spostano quando ci sembra di averli raggiunti.

E le conseguenze di questo mondo dove la fiducia non è coltivata … sono spiacevoli.

Storia

Un po’ di storia

Il libro comincia negli anni ‘90. Siamo a Seattle. Henry ha da poco salutato Ethel, sua moglie. Una brutta malattia l’ha portata via a 50 anni, dopo ben 34 anni insieme. Henry non ha ancora fatto in tempo a riprendere in mano la propria vita, quando un evento alla tv lo sveglia. Anzi lo risveglia.

All’interno dell’hotel Panama, simbolo del quartiere giapponese, viene ritrovato uno scantinato pieno di oggetti appartenenti alle famiglie che furono deportate durante la Seconda Guerra mondiale. Erano stati accatastati in quel luogo per evitare che venissero confiscati e distrutti dagli Americani.

Vi sono foto di matrimoni, oggetti cerimoniali, tazze, album di disegno. Tutti ricordi di un’epoca buia. Triste. Violenta. Ora solo una lontana reminiscenza.

Non per Henry. Nello scantinato non ha nulla di suo, ma, simbolicamente, ha cercato di nascondere delle sue emozioni represse, i ricordi che da bambino avevano segnato la sua scoperta del mondo. Ma nulla è stato veramente cancellato.

Il ricordo di Keiko

Anche dopo più di trentacinque anni, pur amando Ethel, non riesce a cancellare Keiko. Una sua compagna di classe giapponese, con cui ha condiviso una borsa di studio. Con cui ha avuto in comune il senso di solitudine di essere stranieri nel proprio mondo.

Pelle gialla e occhi a mandorla, all’interno di una scuola di bianchi. Diversi ma uniti da questo stesso dramma.

Entrambi, per pagarsi la retta, lavorano nella cucina della scuola, servono i pasti ai loro coetanei bianchi. All’inizio Henry è convinto che Keiko sia cinese come lui. Invece no. Keiko è una ragazzina giapponese. Quindi un nemico.

Mentre Keiko si definisce americana, quindi un’amica. Nemmeno conosce il giapponese.

Entrambi sono nati nello stesso ospedale, ma Pearl Harbor ha segnato una divisione che sembra insanabile. Henry è cinese, un alleato, Keiko è giapponese, quindi una nemica.

Tradizione

Educazione e tradizione

Anche l’educazione delle due famiglie li divide. Inizialmente. Lei ha una famiglia capace di amare oltre le differenze, la loro vita è apertura verso la cultura, apertura verso l’altro, qualunque origine abbia. Henry, invece, vive in una casa dove regna sovrano il silenzio e la lotta contro il nemico. Il Giappone.

Un silenzio deciso da un padre autoritario, fortemente nazionalista, che vuole trasferire i valori della tradizione, e una madre che, per cultura e tradizione, è obbligata ad assecondare le volontà del marito.

Nella situazione in cui vive Henry c’è un aspetto sconvolgente. Il padre genera il silenzio casalingo costringendo Henry a non parlare cinese nemmeno in casa. Spera che impari l’americano e si integri completamente nella cultura dove ora vivono.

Peccato che i genitori non capiscano nulla di inglese. Per questa ragione, Henry vive isolato, senza poter comunicare in nessun luogo. Né a scuola perché lo emarginano i bianchi, né a casa.

Relazioni sociali del terzo tipo

Prima dell’arrivo di Keiko, ha solo un amico. Si chiama Sheldon, un sassofonista, dal cuore d’oro, che incontra, ogni mattina, andando a scuola. Henry ama ascoltare la sua musica, il jazz. Melodie nuove che riempiono le strade e i locali di Seattle, il jazz.

Locali che, ovviamente, suo padre odia perché sono contrari alla tradizione e luoghi di perdizione.

Quando conosce Keiko, è impreparato. Pensa che i giapponesi siano cattivi e siano il nemico. E lei è giapponese. È il nemico. Se solo suo padre sapesse che ha condiviso uno spazio fisico così vicino a una di loro … sarebbe la fine.

Keiko, purtroppo, non si comporta come dovrebbe. È gentile, sorridente, simpatica. Non fa nulla, per essere il nemico e Henry, proprio senza ritegno 😊, inizia a danzare con la persona che diventerà in pochi giorni la cosa più bella della sua vita.

Comincia così ad accompagnarla a casa. Si immerge più volte nel territorio del nemico, il quartiere giapponese. Escono insieme. Di nascosto. Una sera vanno in un locale ad ascoltare l’amico Sheldon, ingaggiato dal grande jazzista Oscar Holden.

Da quella serata, giorno di inizio delle rappresaglie contro i giapponesi, Henry e Keiko avranno una loro canzone, che farà da colonna sonora a tutta la loro vita unendoli per sempre, ma che ricorderà loro come l’odio, quando unito all’ignoranza, possa accecare anche menti buone.

Campi di ricollocamento
Tanto l’amore, ancora platonico, li unisce sempre di più, tanto il governo americano sostenuto dalla compagine cinese cerca di dividerli. Nel momento in cui i loro cuori iniziano a battere all’unisono, l’odio razziale inizia a produrre effetti e li separa.

Viene disposto l’obbligo di internamento di tutti i giapponesi, di nascita e di discendenza, residenti in territorio statunitense per evitare la loro possibile collaborazione con il governo giapponese.

Anche Keiko viene imprigionata, insieme alla famiglia, in un campo di ricollocamento situato a un’ora circa da Seattle. Fortunatamente Henry riesce, grazie alla responsabile della mensa, persona di poche parole, ma attenta alle persone, a frequentare il campo, servendo pranzi e cene, anche in quel luogo. E così riesce a non perdere i contatti.

Campi di ricollocazione giapponese

Amore e resilienza

La storia prosegue, i campi si allontanano sempre di più dalle zone costiere e soprattutto da Seattle. Henry litiga con la famiglia, fa di tutto per mantenere la storia tra lui e Keiko viva. Il suo amore, Henry ne è consapevole, può permettergli di superare ogni difficoltà.

E lui è disposto ad aspettare per l’eternità la sua amata. L’unica cosa che lo spaventa è la paura che lei possa dimenticarlo.

Quando Keiko inizia a non rispondere più alle lettere, Henry perde fiducia e crede che Keiko possa essersi abituata alla sua assenza. Magari innamorandosi di una persona appartenente al proprio popolo. Presente nella sua vita di tutti i giorni.

Può un amore così forte e puro perdersi sotto la polvere del tempo?

Lascio a chi avrà voglia di leggere il libro la possibilità di scoprire la risposta a questa domanda. Spero che tante persone possano conoscere le gesta dei due protagonisti perché, all’interno di queste pagine, sono potuto entrare in contatto con emozioni cangianti. Un arcobaleno di colori. Di tutte le intensità.

Dall’odio verso i soprusi nei confronti dei diversi, alla paura di non sentirsi accettati, alla gioia di scoprire gli elementi comuni con chi ci sta di fronte, seppur differente fisicamente.

Fiducia

Questione di fiducia

Mi è davvero piaciuto questo libro perché mi ha permesso di scoprire meglio cosa io realmente pensi della diversità.

Nel libro si parla di giapponesi come di nemici, persone inaffidabili. Eppure, sono un popolo di lavoratori. Il rispetto è una delle loro caratteristiche chiave.

Nel libro, a questo proposito, c’è un passaggio che mi ha profondamente toccato. Durante la prigionia nei campi di ricollocamento, i giapponesi chiedono agli americani di poter partecipare alla guerra e di difendere il paese dai propri ex connazionali.

Henry si stupisce e domanda per quale ragione abbiano ancora voglia di difendere un Paese che li sta trattando in un modo così crudele. E la risposta è stupefacente: “Vogliamo difendere il Paese che ci ha accolto nel passato e dimostrare con i nostri comportamenti che si sbagliano a non fidarsi di noi”.

Quindi l’odio che gli americani provano è assolutamente irrazionale. Frutto della paura che hanno di vedere la patria non protetta. Risultato della scarsa cultura della diversità presente nelle loro scuole.

Un mix di elementi che cancella il bene prodotto da queste popolazioni nella vita di tutti i giorni.

Non significa che non ci siano giapponesi che rubano o che compiano delitti. Ogni popolazione ne ha una percentuale più o meno ampia.

Davanti a questi fatti, avvenuti una ottantina di anni fa, mi domando come mai non abbiamo ancora imparato dai corsi e ricorsi storici.

Come non sia stata ancora inventata una modalità per gestire le diversità del mondo. In un modo o nell’altro siamo tutti nati, in origine, in Africa e dovremmo vederci simili e non così diversi.

E, soprattutto, mi arrovello, chiedendomi come si possa creare situazioni di accoglienza sane e sostenibili. Ossia, dove sia chi accoglie sia chi è accolto possa sentirsi salvo e sicuro.

La paura, il senso di non protezione per lo scarso rispetto delle regole, la corruzione, l’abbassamento dei livelli culturali dovuti a una scuola con sempre meno fondi, la crisi economica generata dalle nazioni forti che sfruttano le risorse e l’impreparazione delle nazioni deboli, l’incapacità di generare regole comuni da far rispettare per un bene superiore, le difficoltà a inserirsi nel mondo lavorativo, etc.

Potrei proseguire all’infinito …

Conclusioni

Conclusioni

Oggi, la situazione pare insostenibile.

L’accoglienza, come è stata strutturata in passato, genera insicurezza e sfiducia in entrambe le parti. Il rischio concreto è di ricreare gli stessi ghetti che in passato hanno generato odio razziale. E i risultati sono sotto gli occhi di tutti se pensiamo al caso delle banlieue francesi, luoghi dove l’emarginazione e la povertà sono diventati terreno fertile per il terrorismo.

I giapponesi sono un popolo ordinato, lavoratore, rispettoso. Eppure, sono stati odiati. L’odio è qualcosa che abbiamo dentro quando c’è insicurezza e si può rivolgere anche verso persone totalmente innocenti.

Consapevole di questo spero di imparare a trasformare l’odio e il risentimento in amore. Non posso essere certo che possa cambiare gli eventi, ma cambierà, sicuramente, il mio modo di viverli.

Siamo in un’epoca dove amore e leggerezza saranno l’ossigeno del mondo. La cosa più bella è che non vengono prodotti dalle piante, ma da noi stessi, coltivandoli dall’interno. Una sorta di Fotosintesi Leggerezzamorefilliana.

Speriamo di riuscire ad educare le future generazioni ad attivare questo speciale processo chimico.

È, credo, uno dei modi più responsabili che abbiamo a disposizione per cambiare davvero il mondo e trasformarlo in un luogo accogliente e sostenibile.

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