Autenticità nel comunicare: la forza del parlare in pubblico

Autenticità nel comunicare: la forza del parlare in pubblico

Come fate a fidarvi di qualcuno?

Come comunica una persona, un insegnante, un relatore, di cui vi fidate?

Come si dimostra l’autenticità?

AutentiCity

Come introdurre il tema dell’autenticità

Siamo in piana campagna elettorale (non io in prima persona, ovviamente :)). Vedo persone note ai più da anni, cercare di mandare messaggi di solidità, sicurezza, forza, cambiamento, innovazione. Lo stanno facendo attraverso diversi canali.

Non parlo solo di TV, dove tra l’altro sembrano abitare. Parlo di giornali, radio, cartelloni appesi in giro per la città. L’altra mattina, mentre camminavo dalla stazione Ostiense a via del Porto fluviale dove ho l’ufficio, mi sono messo a osservare i muri addobbati a Natale Politico.

Bellissime immagini “photoshoppate” (per chi non lo conosce un software professionale per modificare le foto e renderle coerenti con i messaggi che si vogliono veicolare o semplicemente più belle :)), di cui è difficile capire lo scopo. Si percepisce la forma, ma viene facilmente omessa, confusa, distrutta la sostanza.

Ogni tanto, ci casco ancora. Mi lascio incuriosire e provo ad ascoltare la loro voce in radio e/o in tv. Ricerco una qualche informazione che mi confermi che posso fidarmi, che possa andare oltre quel senso di vuoto che mi generano. Il risultato che percepisco è quasi surreale. L’autenticità si disperde e la forma prende sempre il sopravvento, cercando di annichilire la sostanza.

Per comprendere bene di cosa parlo, credo che serva approfondire il tema dell’autenticità. Quando si è autentici? Si può costruire? O è un ossimoro pensare di costruire l’autenticità, perché dovrebbe essere un atto trasparenza completa?

Proviamo a fare ordine andando a indagare ciò che accade quando comunichiamo.

Parlare in pubblico

La comunicazione tra forma e sostanza

La comunicazione fa parte della nostra vita di tutti i giorni (considerando le ore di sonno, stiamo parlando di ben 16 ore al giorno per 7 giorni su 7). Passiamo una vita a comunicare per tantissimi scopi. Ad esempio:

  • per esprimere dei bisogni,
  • per dare direttive o ordini,
  • per presentare progetti,
  • per vendere o acquistare beni o servizi.

Eppure, quando ci troviamo davanti a una telecamera ci sentiamo nudi. Come se fossimo dei neofiti. E la cosa incredibile è che succede anche a me. Oggi, dopo ormai diversi anni passati a parlare davanti a un pubblico. Davanti alla telecamera ritorno bambino. E mi vergogno. Mi emoziono.

Parlare in pubblico2

Non verbale

Ho paura di non vedere quello che non vorrei mai vedere. Un tic che magari non avevo mai notato, una postura contorta, una gestualità troppo ampia o estremamente ridotta, uno sguardo fisso, delle espressioni del viso non coerenti con ciò che voglio dire.

A volte basta una camicia che sta troppo larga o troppo stretta, un pantalone che rende le gambe fini fini e l’immagine che ne deriva sembra quella di un esile stambecco (come Robin Hood nel cartone della Walt Disney :)) e rendere l’aspetto esteriore della persona diverso da quel che potremmo sperare.

Altre volte capita di passeggiare avanti e indietro senza sosta, come un animale in gabbia, o di essere impalati come un chiodo o di ondeggiare come una barca ormeggiata in mare aperto (vi ricordate Mandi Mandi?). Di avvicinarci troppo a qualcuno e di prendere distanza da altri.

E tutto questo avviene senza che ce ne accorgiamo. Ma l’impietosa telecamera incide su ogni frame un pezzo di noi e ce lo butta addosso senza alcun tatto.

Paraverbale

A volte, l’aspetto non verbale va bene, supera anche il giudizio del peggior critico interno a noi (gli esterni, i compagni di corso, i docenti o in generale coloro che possono vedere una nostra performance, sono ben più gentili nel giudicare il nostro operato) e l’attenzione si concentra a questo punto sulla voce.

La nostra melodia vocale, tecnicamente detta prosodia, non sembra la nostra. Non pare calzare a pennello con il nostro corpo. Troppo acuta. Troppo grave. Troppo monotona, troppo variata. Troppo veloce, troppo lenta. Troppo calda o troppo fredda. Troppo impostata, troppo dialettale.

La voce può dare un senso di tridimensionalità al nostro corpo. Non so se vi è mai capitato di ascoltare un dj in radio e vederlo dopo anni (oggi è meno frequente perché le radio hanno anche la diretta su Periscope :)). Spesso, rimaniamo stupiti (ci eravamo immaginati una figura molto diversa). Più grande o più piccola. Più bella o più rude. La nostra voce genera sensazioni sinestesiche. Ossia sensazioni che superano l’udito e generano percezioni nel dominio degli altri quattro sensi (vista, olfatto, gusto, tatto).

Tutto ciò avviene grazie al timbro (la qualità delle nostre corde vocali e della nostra cassa di risonanza interna, si tratta dell’unica parte che difficilmente è modificabile grazie all’esercizio), alla nostra capacità di dare fiato alle parole (il volume), in alcuni casi alziamo la voce per farci ascoltare a distanza, altre volte vogliamo confidare qualcosa a qualcuno e pertanto diminuiamo la quantità di fiato che utilizziamo per parlare arrivando a sussurrare. Il ritmo genera stati che vanno dalla forte eccitazione alla estrema calma. Anche le pause prima dei concetti più importanti fanno parte del ritmo.

I toni  (trasmettono le nostre intenzioni) si imparano facilmente al parco osservando il comportamento di alcuni padroni di cani quando urlano di ritornare da loro. Alzare il volume, non modificando i toni (abbiamo 3 tonalità utili da imparare: fare affermazioni, impartire ordini, porre domande) fa comprendere al cane di andare lontano e non svela l’intenzione del padrone (ci vorrebbe un volume più basso e una tono che scende).

Verbale

Se abbiamo superato i primi due scogli, possiamo finalmente concentrarci su ciò che volevamo dire (wow!!!). Ossia sulle parole che scegliamo di dire per esprimere i concetti durante il nostro eloquio. Possiamo aver scelto così un linguaggio analitico (dettagliato) , a volte un po’ noiso, o sintetico (visione d’insieme) a volte percepito un po’ superficiale. 

Potremmo ascoltare le nostre parole e scoprire che ci siamo espressi come Obama durante la sua prima campagna elettorale (si riferisce sempre a una grande promessa che nella maggior parte dei casi non condivide e da per scontato che tutti la conoscano). Immaginiamo di voler proporre una soluzione che sia esteticamente bella con dei colori eleganti e un design accattivante.

Come potete intuire, nessuno può essere in disaccordo con questa descrizione (molto generica), ma chiaramente ci rendiamo conto subito che senza dettagli questa descrizione può andar bene all’inizio di una presentazione, ma potrebbe non essere sufficiente in chiusura al fine di definire accordi chiari e certi (definire i colori e le forme può essere un buon modo per evitare sorprese)

Post di Carlo Maria Poli

Una riflessione

Un post

Al termine della giornata, dopo aver congedato i super ingaggiati partecipanti, un collega (Carlo grazie!!!) presente all’evento in veste di mio partner di sviluppo (non avendo la telecamera a disposizione gli ho chiesto di registrare ogni mio ) ha postato la foto della flipchart all’interno della quale ho elencato tutte le caratteristiche dei tre canali della comunicazione che ho descritto all’interno di questo articolo, commentando: “dal corso di public speaking … pillole … di Fabio De Luca e Ambrogio Scognamiglio … tks … Great Job …”.

Una delle prime risposte che ha ricevuto è stata quella di  Francesco M.: “Domanda: ma se si esamina così il metodo della comunicazione vuol dire che il merito conta relativamente, ovvero è più importante come si dicono”.

La domanda a questo punto nasce spontanea:

Il merito conta più della forma o la forma conta più del merito? Cosa ti arriva da quanto ho scritto? 

Dal punto di vista etologico

Se dovessimo fidarci dei dati elaborati da Albert Mehrabian, il non verbale influirebbe sull’interlocutore per il 55%, il paraverbale il 38% mentre il verbale sembra contribuire solo per il 7%. Per cui la risposta, sembrerebbe scontata: la forma comunica più della sostanza e darebbe ragione a Francesco M.

Però, fortunatamente, Albert Mehrabian smentì un uso così meccanico e generalizzato dei dati da lui raccolti (esperimenti che riguardavano la comunicazione di atteggiamenti e sentimenti, tipo antipatia e simpatia). Perciò, è possibile concludere che non in tutti i contesti questi dati possono essere considerati validi. E questo aspetto quando lo scoprii, mi fece molto riflettere.

Nella mia esperienza, chi vuole  comunicare in modo efficace (raggiungendo gli obiettivi) ed efficiente (massimizzando i minuti a disposizione) non può prescindere da nessuno dei tre canali. Il verbale magari all’inizio non sembra così importante.

Le persone che sanno comunicare utilizzando bene il non verbale e il paraverbale effettivamente hanno un vantaggio competitivo iniziale. Ma nel tempo le bugie, le inesattezze hanno le gambe corte e gli sguardi e le orecchie attente sono in grado di comprenderle.

Conclusioni autentiche

Per tutto quello che ho condiviso, può diventare più semplice ora pensare che nel breve periodo il verbale conta relativamente meno degli altri due canali, ma che nel lungo periodo le percentuali si invertono. Magari all’inizio una comunicazione infiocchettata funziona e può mascherare lacune. Ma nel tempo, durante i successivi incontri, la coerenza nell’uso di tutti e tre canali è l’unica possibile chiave di volta per garantirsi una grande probabilità di successo. Perché la coerenza nel tempo è l’unica forma di autenticità garantita.

Per diventare realmente autentici, bisogna così allenarsi alla coerenza. Allenare ogni canale a nostra disposizione per farlo danzare con gli altri e generare un messaggio incredibilmente potente. Conosco poche persone capaci di comunicare con tale forza senza impegno e formazione. I bambini. Sanno comunicare emozioni, ordini, richieste, bisogni, in modo diretto e autentico.

Purtroppo l’educazione, attraverso metodologie arretrate e poco inclini allo sviluppo del talento, fa perdere la nostra innata autenticità e quando la formazione incontra l’adulto ha proprio come primo scopo riportare la persona alla sua primordiale essenza (un sorriso sincero, una paura manifesta, uno sguardo attento e partecipe, …).

Francesco M. non sono certo di averti convinto con i miei ragionamenti e non sono certo nemmeno di aver trovato la giusta forma e sostanza per esprimere quanto avevo in testa.  Ma come al solito l’unico giudice che mi convincerà saranno i vostri feedback.

Spero di riceverne tantissimi e pur di riceverli vi chiedo di non curare la forma, ma di regalarmi la vostra sostanza, un po’ come quando la fiducia prende il sopravvento e la forma perde in parte la propria forza.

A presto!

Fabio De Luca

#Connectance #LearningBySharing #PublicSpeaking

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *