“Le cose più importanti sono le più difficili da dire. Sono quelle di cui ci si vergogna, poiché le parole le immiseriscono – le parole rimpiccioliscono cose che finché erano nella vostra testa sembravano sconfinate, e le riducono a non più che a grandezza naturale quando vengono portate fuori.
Ma è più che questo, vero? Le cose più importanti giacciono troppo vicine al punto dov’è sepolto il vostro cuore segreto, come segnali lasciati per ritrovare un tesoro che i vostri nemici sarebbero felicissimi di portare via. E potreste fare rivelazioni che vi costano per poi scoprire che la gente vi guarda strano, senza capire affatto quello che avete detto, senza capire perché vi sembrava tanto importante da piangere quasi mentre lo dicevate.
Questa è la cosa peggiore, secondo me.
Quando il segreto rimane chiuso dentro non per mancanza di uno che lo racconti ma per mancanza di un orecchio che sappia ascoltare.”
Stephen King (il Corpo – Stagioni diverse)
Abstract
Questo articolo esplora il tema dell’autoscoperta e della liberazione del proprio potenziale attraverso il libro “Una vita non basta” di Enrico Galiano. Racconta la storia di Teo, un adolescente che si sente fuori posto nella vita e a scuola, e del professor Bove, che lo guida attraverso lezioni di vita usando storie ed esempi tratti dalla natura.
Il libro enfatizza l’importanza di accettare e conoscere la propria “Cosa” interiore, descritta come un demone in cattività, che può essere trasformata in una forza creativa. Attraverso personaggi come Peach, l’amica che accetta Teo per quello che è, e vari esempi di animali che superano le difficoltà, il libro invita i lettori a guardarsi dentro, ad accettare le proprie vulnerabilità e a trovare il coraggio di osare. Il messaggio centrale è che la paura di fallire non deve impedirci di volare alto, poiché solo affrontando le sfide possiamo veramente realizzare il nostro potenziale unico. Questo libro è un inno all’essere felici delle nostre incertezze e inquietudini, e un invito a vivere con curiosità e coraggio.
Introduzione
Una piccola riflessione, prima ci cominciare a parlarvi del libro protagonista di questo articolo. Piccola, non perché il tema sia facile e veloce da toccare, ma perché “una vita non basta” per parlare di certi argomenti, toccare certe corde.
Spesso ci sentiamo fuori posto, come se avessimo perso la strada giusta. O, forse, come se non l’avessimo mai trovata. Dirlo a quasi cinquant’anni è strano forte. Dovremmo averla trovata mi dice una voce interna: “Fabbié, come fai a non averla trovata??? Proprio tu che vai in giro a parlare di scopi, talenti, risorse, … Non puoi non averla trovata”.
Eppure, il dubbio, forse anche sano, ma sconquassante è … Sarà la mia strada quella che sto percorrendo? La “cosa” che ho dentro è questa? Posso serenamente continuare questa via o forse è meglio che ne scopra un’altra più vicina a me? Che mi porti verso altre persone, verso altri luoghi, verso altre scelte.
Non so quanti si pongano questa domanda. Si tratta di una domanda scomoda che prevede di aver scelto la pillola della consapevolezza e non quella della corrente. Eppure, l’energia ci serve. La corrente ci serve. E andare portati dalla corrente non è male. Ma … La direzione che abbiamo preso è nostra o di qualcun altro?
La corrente potrebbe darci sì energia per muoverci, ma la direzione dobbiamo sceglierla noi. Ma come fare a sapere quale sia quella giusta? Ce ne è una giusta per noi?
Questo articolo è dedicato a tutti quelli che si sentono così: persone dubitanti, curiose, alla ricerca di un equilibrio sempre un po’ precario perché la sicurezza di aver imboccato la strada giusta non l’avremo forse mai, ma la curiosità di cercare e di scoprire quale sia potrebbe mantenersi sempre e guidarci in tutte le nostre azioni.
O forse scopriremo che non esiste proprio una strada giusta, ma esistono solo le sensazioni che vogliamo provare e tantissimi modi per viverle.
Certo non è semplice avere la sensazione di essere stati bocciati dalla scuola o dalla vita, di rimanere incerti su dove andare o persino essere in dubbio su chi realmente siamo. Con il senno di poi, quando ci guardiamo in prospettiva, possiamo anche scoprire che essere “bocciati” da scuola o dalla vita può essere davvero il momento di scambio.
Come se fossimo sulle rotaie e finalmente cambiamo direzione grazie a uno scambio che ci permette di entrare in una nuova via. I binari cambiano, le persone intorno cambiano e tutto per quanto sembri come prima è cambiato.
Dovrebbero insegnarci questo a scuola. A imparare a imparare da ciò che accade, che ci accade. Capire come rendere ogni momento della vita un momento di apprendimento. Un aneddoto pregno di significati da poter condividere con le persone cha abbiamo intorno.
Ma … come fare a imparare? A volte può essere utile incontrare qualcuno, altre volte, vivere un’esperienza mistica, in certi casi, leggere un libro. “Una vita non basta” può essere il libro per te.
Giocarsi le proprie carte
Teo può essere una parte di te, tutto te. Oppure, puoi sentirti come Peach. O come il Professor Bove. O come Sofia. O come Frodo, Edo o come si chiama il fidanzato di Sofia. O, come Mario Limiti, passato dalle stelle alle stalle nel giro di un istante.
Tutti personaggi del libro che hanno ricevuto carte diverse e nella vita cercano di giocarsele come meglio credono. Hanno tante vite diverse e non tutti le stesse possibilità e probabilità di incidere sulla direzione che vorrebbero per la loro vita.
Tolti i casi dove le carte girano proprio storte e la bravura è non perdersi d’animo e prendere quel che c’è – facile a dirsi, un po’ più complesso da farsi. A parità di carte ricevute, qualcuno sembra trovare una via, mentre altri sembrano maggiormente in difficoltà.
Al di là di casi estremi, dove le possibilità di scelta sono davvero poche (ma anche qui ci sono, bisogna sempre ricordarlo), che conosco bene, le persone giocano le loro carte istintivamente sulla base di un incrocio tra propria indole, educazione ricevuta a casa e a scuola, esperienze casuali che possono diventare causali.
Non credo esista una regola che valga per tutti, ma sicuramente è possibile dare un po’ di ordine al caos che ci accade dentro stimolando un processo riflessivo che può reinterpretare le cose che accadono.
Ho la fortuna di lavorare in molti ambiti, dalle aziende alle cooperative, alle associazioni, alle scuole, nello sport, in sanità. E … Non esiste luogo dove tutto vada bene. O, perlomeno io non l’ho ancora trovato (ma se avete suggerimenti, sono qui!) …
Ma … rimango ogni volta stupito nell’osservare quanto i luoghi, dove meno ce l’aspettiamo, sappiano mostrarci la vera felicità, fatta di attimi di gioia che rendono significativi gli sforzi fatti per generarli. Ieri sera, ne ho avuto l’ennesima conferma (grazie Elisa per avermi fatto conoscere questa realtà).
Infatti, ho fatto un “salto” all’evento “Chi se ne food” realizzato da Cassiavass presso una delle sedi formative più belle dove riesca a organizzare attività di sviluppo dei talenti. Doveva essere una seratina con un po’ di persone, tanti amici, molti utenti e tantissimi caregiver, che vivono tutti i servizi della cooperativa (https://www.cassiavass.it/).
Invece, l’evento si è trasformato in una grandissima festa, dove il territorio ha risposto “presente”, lasciandosi innamorare da questo luogo e dalle persone che ogni giorno combattono per renderlo più bello, più funzionale, più capace di tirar fuori l’anima delle persone e dare colore al mondo. A un mondo fatto di infinite diversità.
Sono di parte, lo so. Credo che sia all’interno di questi luoghi e attraverso questi progetti che si possa scoprire un esempio palese, lapalissiano, di cosa possa essere la propria “cosa”. Altrimenti gli sforzi, l’impegno che ho visto e percepito, non sarebbero proprio possibili.
Cosa spinge queste persone a realizzare momenti di bellezza come questi?
Io sono affascinato da chi gioca così le proprie carte, perché vedi negli occhi la luce di qualcosa che brilla, brucia e che trasforma le delusioni, le difficoltà, i traumi in combustibile. Nessuna di queste persone ha solo carte buone.
Hanno, però, saputo scegliere di giocarle insieme o forse di cambiare le regole del gioco per rendere lo stesso gioco più bello e interessante. E con loro si mischiano le carte di persone che hanno avuto carte peggiori, ma che in questo magico posto trovano un po’ del proprio benessere. Essere insieme è tanta roba.
Ora, ormai l’ho citata almeno tre quattro volte immagino vi starete domandando … Cosa è questa “cosa”?
Non credo ci sia una risposta definitiva, per ciascuno è qualcosa di diverso. Scoprirla è uno dei momenti più illuminanti che possiamo vivere, saperla educare, ossia tirar fuori nella direzione giusta è magico. Ma facciamo un passo indietro e torniamo al libro di cui vi volevo parlare.
Una vita non basta
Finalmente, direte voi, entriamo nel libro di Enrico Galiano. Un libro che ho trovato fortemente autobiografico (ma non lo posso sapere con certezza, perché Enrico nemmeno sotto torchio me lo direbbe), che trasuda di cose vissute in prima persona, ma distribuite tra i personaggi che segnano le storie del libro.
Carl Gustav Jung diceva: «La tua visione diventa chiara solo quando guardi dentro al tuo cuore. Chi guarda fuori, sogna. Chi guarda dentro, si sveglia.» Riflettere su quanto sia importante fermarsi e guardarsi dentro, piuttosto che lasciarsi trascinare dai giudizi esterni è cruciale per trovare un proprio posto nel mondo.
Il libro ci invita a invertire le parti, a liberare il potenziale insito nel vedere le cose sotto sopra: «E siamo solo mostri con una grande paura di trovare un bambino sotto al letto.» PINGUINI TATTICI NUCLEARI, La storia infinita.
Ogni cosa che accade può essere significativa e regalarci cambi di punti di vista. Un mostro che ha paura del bambino e non il contrario. E, così, Enrico Galiano ci immerge dentro una storia che poco alla volta ci fa tirar fuori ciò che abbiamo vissuto e quel che tuttora viviamo quando entriamo in crisi perché non comprendiamo cosa sia giusto fare.
Il primo capitolo ci porta a scuola di Teo e Pitch. Siamo a fine anno e devono concludere un tema:
“Tema: Scrivi una lettera a un tuo amico che vuole lasciare la scuola per convincerlo a cambiare idea.”.
Anzi Teo deve ancora cominciarlo. Non gli vengono le parole. Non capisce perché debba far cambiare idea a una persona quando lui stesso sente che quel che sta facendo potrebbe essere giusto. La scuola dove nessuno ti ascolta, ti comprende, ti vede per come sei, per il valore che hai non può essere un luogo dove convincere le persone ad andare. Non sa se tutte le scuole siano così, ma la sua è così o finora gli è sembrata così.
Nessuna emozione, tante cose da imparare a memoria, date, poesie, … Tutte cose che gli si appiccicano addosso senza entrare veramente dentro. Non vi è passaggio osmotico tra lui e le cose che gli vengono date. La sua mente ricorda troppo un vaso da riempire, senza che ci sia nulla che possa fare per personalizzare ciò che gli sta entrando dentro.
Per fortuna, come spesso accade nella vita, le persone che incontriamo, con cui ci scontriamo, che iniziano di punto in bianco a camminare di fianco a noi, possono con la loro presenza innescare un processo di cambiamento. E così fa il Professor Bove. Una figura che ricorda molto Socrate e la maieutica.
Il suo modo di narrare storie per far comprendere i significati a Teo è incredibilmente potente. Ci si trova cambiati senza aver avuto tempo di resistere. I racconti, quando ben raccontati, hanno effettivamente questo potere.
Così diventano strumenti di cambiamento anche gli animali che Teo ritrova nei manuali che fin da piccolo sfoglia.
“Il Colibrì di Anna, o Calypte anna, appartiene alla famiglia degli uccelli mosca, i più piccoli al mondo. Questo uccellino delle dimensioni di un insetto è famoso per un record unico in natura: riesce a toccare la velocità di 98 km/h, più veloce del ghepardo!
Quando e, soprattutto, perché va così veloce?
Gli serve per il corteggiamento, per far capire alla femmina che possiede coordinazione, forza, insomma per far mostra dei propri geni e ottenere quello che tutti i mammiferi in natura bramano ardentemente: fare sesso. La particolarità è che questo volo supersonico il Colibrì di Anna lo fa in picchiata, per poi all’ultimo ridispiegare le ali e risalire.
Morale: quando vuoi qualcosa, e la vuoi tanto, fai come il Colibrì di Anna. Non aver paura di cadere. Anzi, impara a farlo a tutta velocità, per poi risalire.
Prendiamo esempio dalla natura. Il Colibrì di Anna raggiunge velocità incredibili non per fuggire, ma per dimostrare il proprio valore. Quando vuoi qualcosa, devi metterci tutta la tua energia, anche a rischio di cadere.”
Quante cose non vengono fatte per la paura di cadere? Quanto del nostro valore non viene fuori perché abbiamo timore di farcela? Facciamo tutti come il Colibrì di Anna, esprimiamo al massimo i nostri talenti e condividiamoli con il mondo. Qualcosa succederà..
Tra l’altro il Colibrì è anche un simbolo e significa varie cose: “Spirito in grado di aiutare e curare le persone che si trovano in difficoltà” e ispiratore degli “Spiriti liberi”. Un piccolo volatile, una grande ispirazione.
Così fa Teo. Non subito però! Altrimenti che libro noioso sarebbe! Il protagonista del nostro racconto decide infatti di scrivere quel tema, per condividere le sue riflessioni su come si sente in quel mondo fatto di persone che non lo capiscono. E da lì la storia entra nel vivo. Trova le parole giuste per parlare a Lollo (nome immaginario a cui Teo rivolge la lettera) e convincerlo a fare quel che sente. Se non vuole più andare a scuola, che segua i propri sogni. Che viva la vita che sente meglio per lui. Mentre leggevo quel testo, nella mia mente entravano un sacco di immagini, pensieri, emozioni.
Non so come percepiate queste parole dentro di voi. “Ma come non andare a scuola?” “Come può inseguire i sogni senza aver studiato?” “Vabbè soffrirà un po’ ma … Poi ne vedrà i risultati!” Ma è giusto pensarla così?
Credo di no, anche se anche dentro di me questi pensieri si affollano e debbo mandarli via per poter riflettere a mente aperta, scevra di pregiudizi che la rendano mediocre, come non vorrei che mai sia.
Il problema non è in sé mollare o rimanere a scuola. È sapere a cosa serva la scuola, a cosa serva l’intera educazione.
A imparare nozioni e farci sentire diversi perché abbiamo diverse modalità e velocità per impararle? O a scoprire i talenti che abbiamo e a come metterli a frutto? Voi che ne pensate?
Io vorrei che fosse la seconda ipotesi a prevalere. Vorrei tantissimi professore Bove che sappiano tirar fuori da ogni ragazzo o ragazza la propria natura, essenza, la propria “cosa”.
La propria “cosa” è ben descritta in “Una vita non basta”, sempre attraverso le parole del professor Bove:
«Lei dice che la sua Cosa è cattiva, quando la porta a farsi così del male, ma in realtà non è cattiva, solo in cattività.»
«E quindi io… che dovrei fare?»
«Non cerchi di liberarsi di questa Cosa, perché non potrà mai.»
«Ah no?»
«No. Non potrà liberarsi di lei, ma potrà liberarla. Accettarla, cercare di conoscerla: usare la sua forza straordinaria per creare qualcosa di bello e non per rompere vetri e finestre. È come con la penna che le ho dato poco fa: dentro di essa c’è un’infinità di versi da scrivere. Cominci a farlo, prima che può, scriva tutte le parole che si porta dentro, dia una forma al suo demone, che sia con la scrittura che sia con qualsiasi altra cosa, ma lo faccia, si sbrighi, prima che l’inchiostro esploda!»
Per comprendere la propria “cosa,” serve pazienza, servono contesti (e la scuola dovrebbe essere uno di questi) in cui ci si possa confrontare e liberarla, farla vivere insieme a noi sprigionando il nostro “elan vital” senza farci male. Purtroppo però non è semplice quando ci si trova nella situazione di Teo (non credo sia l’unico a vivere queste sensazioni).
Teo, infatti, racconta proprio della solitudine che sente a scuola e del fatto che trovi conforto solo con Peach, la sua amica speciale che lo accetta per quello che è, senza etichette. Peach, come ogni persona che ci ama per quel che siamo, non cerca di cambiarlo. È bello così come è.
Non che non possa cambiare o debba anche cambiare qualcosa, ma nessuno dei cambiamenti è frutto di una non comprensione del valore che porta con sé. Peach lo incoraggia a essere se stesso, a trovare se stesso e a tirar fuori ciò che ha dentro.
Questo ci insegna che è fondamentale circondarsi di persone che ci accettano e ci supportano e che ci aiutano a credere in noi e nelle nostre potenzialità, anche quando sono molto lontane da essere espresse attivamente.
A scuola e nella vita, spesso siamo motivati, invece, dalla paura: paura di fallire, di deludere, di non essere all’altezza degli standard che ci raccontano attraverso i giudizi che ci offrono tutti i giorni.
Ma se, invece, la motivazione che ci può far brillare fosse la gioia di scoprire e scoprirci nelle nostre vulnerabilità? Quanto più potremmo ottenere dalla nostra vita? Quanto giocheremmo meglio le nostre carte?
Non a tutti è data la possibilità in questa vita di vivere pienamente, ma chi ha avuto la fortuna di giocarsi delle buone carte e riesce a metterle al servizio della comunità e del mondo, può lasciarsi stupire da quel che accade. Solo che bisogna uscire dai quadri in cui ci hanno inserito prima ancora di aver capito che tipo di quadro possiamo essere.
Teo, infatti, nella storia racconta quanto si senta come un quadro incorniciato prima ancora di essere finito. Ma come il Tasso del miele (che troverete nel libro), animale resistente al veleno grazie alla sua pelle robusta, possiamo imparare a resistere alle avversità senza farci abbattere.
Quindi possiamo uscire dalle cornici anche se ci provocano dolore. È un percorso che fatto insieme a persone che ci vogliono bene e ci comprendono nelle nostre diversità funziona meglio. Insieme si può di più e il benessere si propaga quasi all’infinito. Come ieri sera durante “Chi se ne food”.
Cosa mi sono portato a casa
La vita, non smetterò mai di ricordamelo, è fatta di esperienze, errori e tentativi. Io ho fallito, sbagliato ed errato moltissime volte. I tonfi hanno fatto molto male, ma ognuno di essi mi ha forgiato e mi ha fatto capire quanto i successi, ossia le cose che ho fatto succedere, siano stati grandi anche grazie a quei tonfi.
Non dobbiamo avere paura di sbagliare. Anche perché la parola “errare” è una di quelle parole che può rappresentare una enantiosemia. A seconda del contesto potremmo leggerla come sbagliare, ma anche come viaggiare, muoversi.
Ce ne parla dentro il libro il professor Bove in una delle sue lezioni “erranti”:
«Eudaimonìa significa proprio questo: lo stato in cui ci troviamo quando ascoltiamo il nostro demone. Quando gli permettiamo di guidarci, di consigliarci, di portarci dove lui sa. Solo che…»
«Solo che?»
«Solo che demone è un tipico caso di enantiosemia.»
«Erasmo… cosa? Cos’è? Oggi ha deciso di usare solo parole impossibili, professore?»
«Ah ah! No, mio caro. Enantiosemia», precisa, scandendo bene la parola, «è la caratteristica di alcune parole, che possono avere significati opposti, come storia che indica sia la storia, quella che studiamo a scuola, quella vera, ma anche una storia di fantasia. Ce ne sono tantissime, come ospite, o anche tirare… tutte parole che in base a come le usiamo significano una cosa ma anche… il suo esatto contrario.»
«E perché dice che demone è una… sì, insomma una di quelle parole lì?»
«Perché anche il nostro demone può essere buono o cattivo, in base a come noi lo trattiamo.»
Tutto dipende da quali occhiali mi voglio mettere e dal contesto che mi voglio costruire. Alcuni non possiamo sceglierceli, ma tanti altri sì. Errare è il modo migliore per definire quelli che potranno realizzare il nostro essere oggi e … soprattutto domani.
Come disse Oscar Wilde: «Se sai esattamente cosa vuoi essere nella vita, prima o poi lo diventerai: e questa sarà la tua più grande condanna.» È più importante vivere con l’incertezza, reinventarsi ogni giorno e accogliere l’inquietudine come una benedizione.
Questo libro è un inno all’essere felici delle nostre incertezze e inquietudini. Perché sono loro che con la loro forza possono farci raggiungere chi realmente possiamo essere.
Come dice il Professor Bove, non dobbiamo lasciare che la paura ci impedisca di volare. Che non significa non avere paura. La paura, come tutte le emozioni ha un suo scopo e va protetto. Serve a trovare i propri confini, spingendoli poco alla volta un po’ più in là. Scoprendo quali X stanno nel nostro cerchio e quali no.
A volte, per arrivare lontano, bisogna essere pronti a cadere dall’alto. Lasciandoci andare. Siamo verbi, non nomi. Siamo possibilità, non definizioni. Siamo una moltitudine di io, ognuno con il proprio valore unico.
Grazie Enrico per il mondo possibile in cui mi hai portato. Spero che “Una vita non basta” diventi un libro di scuola, un libro che dia valore agli studenti e alle studentesse e che faccia diventare il ruolo dell’insegnante quello di un facilitatore di apprendimento di nozioni, di storie, di espressione di “Cose” e di vita da vivere.