Mettersi nei panni degli altri per lo sviluppo dell’intelligenza emotiva

percepire le emozioni altrui

Percepire le emozioni altrui anche se diverse dalle proprie

Introduzione

Oggi, voglio essere sincero. Sì. Sono sincero nel dirvi che sarò sincero. Non voglio in nessun modo controllare ciò che scriverò perché voglio dirvi quel che penso. Quel che credo. Spero che ciò vi faccia piacere. Penso che possa far piacere. Essere sinceri non può essere che uno dei pilastri dell’intelligenza emotiva. Non credete?

Essere sinceri può essere tradotto con l’idea di dire la verità. Quindi non può certo far male. Se sono sincero, dico la verità e chi mi ascolta apprezza il fatto che io sia diretto e senza filtri. Avete mai provato a farlo?

Chiunque l’avesse fatto sa che… Non sempre chi utilizza la trasparenza e da feedback senza filtri provoca reazioni di gratitudine. Anzi. Il più delle volte la reazione di chi riceve è aggressiva. Le parole, anche se dette con franchezza, possono generare ferite. Possono dare dolore. Anche se dette con sincerità.

Chi è dotato di intelligenza emotiva quindi è sincero o non lo è?

Un antico Koan Zen, molto caro a chi si occupa di formazione, suggerisce una risposta: “dipende”. Ma da cosa può dipendere?

I fattori in gioco per l’intelligenza emotiva

Entriamo nel problema

Immaginiamo alcune situazioni da me viste dove possa esserci ambiguità di scelta (i nomi sono di pura fantasia):

  • Mi trovo davanti a una Luisa, una collega che ha appena scelto di cambiare colore di capelli e trovo che questo colore non le dona per nulla
  • Ho un collaboratore, Giorgio, che ha fatto un grande errore all’interno della stesura di un’offerta e so, allo stesso tempo, che ha ricevuto una brutta notizia personale nell’ultima settimana.
  • Mi trovo di fronte a Annibale, un collega che si è offerto di dare supporto all’interno di un progetto, che viene letteralmente offeso davanti a tutti dal capo progetto, Luca, per un possibile errore.
  • Vedo in diverse occasioni un caro amico, Andrea, invogliare il proprio figlio, Arturo, verso la propria attività lavorativa, non domandandosi quanto il figlio voglia realmente seguire le sue orme e non osservando diversi  segnali che potrebbero far supporre che abbia altre passioni e desideri.
  • Mi accorgo che un’amica, Anna, si lamenta continuamente del proprio lavoro e mi rendo conto che forse è solo un indizio di una problematica di altro genere che, forse, sarebbe da affrontare.

In tutte queste situazioni, come vi comportereste? Sareste sinceri? Esprimereste il vostro punto di vista? Quali sono le variabili da considerare?

Processi cognitivi e emotivi

Provo a condividere con voi i miei processi cognitivi e emotivi che mi caratterizzano quando affronto scelte come queste:

  • Mi domando se quanto vedo io da fuori sia oggettivabile (il colore è orripilante per me o in generale? Potrebbe non essere adatto ai contesti in cui lavora e potrebbe crearle dei problemi? La reazione di Luca, il capo progetto, è effettivamente sproporzionata o la sto vivendo io come tale? …)
  • Mi pongo il dubbio di come stia la persona emotivamente, di quali bisogni voglia risolvere, cosa le abbia fatto scattare quella modalità, quale obiettivo aveva e quale obiettivo ha raggiunto e se abbia visto quel che ho intravisto io da fuori (la persona è fuori di sé o torna fuori di sé quando le voglio dare un feedback? La persona mi racconta la sua versione dei fatti partendo dal presupposto di essere totalmente nel giusto? O non vede proprio il problema? …)
  • Mi chiedo se la persona percepisca l’impatto del proprio comportamento sull’altro (non vede assolutamente la propria responsabilità sull’accaduto? Non riesce a percepire l’altro e quanto vissuto dall’altro in quei momenti? …)
  • Mi domando quale sia il luogo adatto per parlarne (in ufficio, davanti a una birra, a passeggio…)
  • Infine, mi domando forse la cosa principale per decidere (almeno dal mio personale punto di vista) … Che obiettivo ho io con questo dialogo (Voglio dargli la possibilità di scegliere un comportamento alternativo? Voglio sentirmi di avergli detto quel che penso in modo da non sentirmi in colpa? Voglio essere sincero perché è un mio valore? …)

Definizione di empatia2

Empatia e radici dell’intelligenza emotiva

Tutte le domande che mi pongo hanno uno scopo. Quello di mettermi nei panni dell’altro prima di fare qualunque cosa. Tutto ciò in modo da capire il più possibile e il prima possibile cosa veda, cosa provi, cosa pensi e cosa faccia la persona che ho davanti. Senza essere entrato nelle sue scarpe (una delle definizioni di empatia che amo di più), senza aver agito la mia capacità di essere empatico, difficilmente riuscirò a essere capace di toccare le corde più potenti. Difficilmente ascoltiamo qualcuno che ci sembra ci stia giudicando o che non stia cercando di comprenderci fino in fondo. Come fare dall’altro lato a comprendere qualcuno che fa proprio l’opposto di quel che farei io?

Tutto ciò non mi risulta particolarmente facile. Non so se vi siete mai accorti di quanto sia difficile ascoltare qualcuno, quando sono entrati in azione i nostri pregiudizi. Il fatto, ad esempio, che Luca, il capo progetto di cui abbiamo in precedenza, abbia urlato contro un collaboratore, trattandolo con aggressività e non comprendendo il suo punto di vista, fa scattare in me (anche se, nella realtà, con un po’ di allenamento questa percezione di subire la reazione può essere gestita) una sensazione di rabbia. Una rabbia che mi rende difficile il processo di empatia. Quello stesso processo che vorrei vedere, paradossalmente, nelle azioni di Luca.

Come posso allenarmi per accogliere empaticamente l’altro? E me stesso (il processo di empatia può essere orientato anche verso quella persona che ogni mattina guardiamo allo specchio)?

Origini dell’empatia

L’empatia è un processo che deriva da un kit di neuroni di cui l’uomo e gli altri animali sono dotati. Avete mai sentito neuroni specchio?

Tra gli anni ’80 e ’90 del secolo scorso un gruppo di ricercatori dell’Università di Parma (coordinato da Giacomo Rizzolatti e composto da Luciano Fadiga, Leonardo Fogassi, Vittorio Gallese e Giuseppe di Pellegrino) cominciò ad analizzare il comportamento della corteccia premotoria. Per questa ragione, avevano attaccato degli elettrodi nella corteccia frontale inferiore di un macaco. Lo scopo era  studiare i neuroni specializzati nel controllo dei movimenti della mano, come il raccogliere o il maneggiare oggetti. Come potete vedere lo scopo dello studio non aveva nulla a che fare con i neuroni specchio. Come spesso accade, le scoperte avvengono per puro caso.

Al termine di una sequenza di esperimenti, viene dimenticata accesa la risonanza magnetico funzionale (lo strumento che registra l’attivazione elettrica presente nella nostra testa). Durante un momento di break (anche i ricercatori fanno pausa ogni tanto e così gli animali che giocano con loro), una persona entra nella stanza degli esperimenti e “ruba” una nocciolina (cibo molto gradito ai macachi e utilizzata come premio durante le sperimentazioni . Il macaco si accorge della scena, rimane immobile e inizia a osservare il comportamento della persona. La risonanza, per quanto il macaco si immobile, inizia a registrare tutta una serie di risposte elettriche. Uno sperimentatore che era vicino al computer si accorge di questo stranissimo fenomeno: animale che guarda, rimanendo immobile e registrazione di elettricità nella  fascia motoria. Come poteva essere accaduto visto che la scimmia non si era mossa?

Funzionamento dei neuroni specchio

Fino ad allora si pensava che quei neuroni si attivassero solo per funzioni motorie. Mentre in quella situazione si dimostrava che i neuroni della fascia motoria potevano attivarsi anche rimanendo immobili. Questa reazione era dovuta all’attività dei neuroni specchio, una fascia di neuroni che “spara”, come dichiarano successivamente gli sperimentatori (cioè si attivano, ossia passa per essi dell’energia che li accende attivando delle reazioni elettriche e chimiche), quando il nostro occhio osserva qualcosa che genera in noi un senso di immedesimazione. Quindi non caratterizza solo gli animali, ma anche noi esseri umani.

Se da un punto di vista scientifico può sembrare un processo complesso, da un punto di vista pratico è molto più semplice osservarlo. Infatti, questi neuroni ci permettono, ad esempio, di comprendere quanto si sta divertendo un bambino solo osservandolo da fuori mentre gioca con altri bambini. O quanto sta soffrendo una persona quando si è sbucciata un ginocchio (avete presente la sensazione che ci fa mettere le mani sopra il ginocchio come se fosse accaduto anche a noi?).

Dagli studi sul meccanismo cerebrale che media l’empatia, Rizzolatti e il suo team hanno tratto una serie di conclusioni che ci aiutano a comprendere il loro funzionamento:

  • Più siamo vicini alla persona e più in nostri neuroni sparano favorendo l’immedesimazione
  • Più siamo lontani o ci sentiamo diversi dalla persona che abbiamo davanti e meno si attivano processi di riconoscimento emotivo
  • Più abbiamo provato in passato una sensazione in prima persona e più siamo in grado di riconoscere la stessa sensazione su altre persone facendo sparare i neuroni specchio
  • Meno abbiamo provato sensazioni o emozioni simili e più dobbiamo impegnarci per comprendere cosa vive l’altro e per riconoscere dentro ciò che sta provando.

Far crescere l’empatia

Premesso che si senta il bisogno di crescere nella propria capacità di essere empatici, la consapevolezza di queste conclusioni può dare alcuni spunti per sviluppare e allenare i nostri neuroni. Ad esempio:

  • Più osserviamo quanto accade agli altri e ci poniamo domande (come ad esempio, ho mostrato nel paragrafo processi cognitivi e emotivi), più possiamo immedesimarci in quel che l’altro prova. Difficoltà dell’esercizio in sé relativa, la parte più difficile è prendersi l’impegno di farlo sempre e in qualunque situazione.
  • Un’altra strada, leggermente più impegnativa è quella di fare teatro, come ci ricorda Elio Germano nel filmato inserito qui in alto e tratto da  “Che tempo che fa” (trasmissione di RAI Tre condotta da Fabio Fazio): entrare in un personaggio ti fa immedesimare nelle emozioni altrui sviluppando sempre più connessioni specchiate. Difficoltà dell’esercizio relativamente maggiore, ma superato un certo livello di pratica, diventa divertente (l’empatia non si manifesta solo vivendo stati tristi, anzi :-)). Tra l’altro, Elio Germano suggerisce di far sì che ogni scuola utilizzi il teatro come metodo per insegnare ai ragazzi a essere empatici e così rispettare i punti di vista di tutti. Sarebbe un sogno. Chissà che un giorno non si realizzi.
  • Altra via è quella di attivarsi in prima persona nel fornire supporto a persone che hanno bisogno con l’aiuto di qualcuno che ci aiuti a scaricare lo stress che ne deriva. Fare questo esercizio senza una guida ad esempio può essere pericoloso, perché alcune persone buttate in situazioni dove l’emozione è molto intensa, rischiano di proteggersi allontanandosi proprio dal contatto con le proprie emozioni e alimentando il processo opposto a quello della generazione dei neuroni specchio.

Conclusioni

Tu come fai a alimentare la tua intelligenza emotiva e soprattutto la tua capacità di far crescere l’empatia? Ti va di condividere con me quel che ti funziona? Potrebbe essere d’aiuto ad altri. Me per primo.

Mi auguro “sinceramente” di leggere tantissimi commenti e spunti 🙂

Fabio

 

#Connectance #IntelligenzaEmotiva #Empatia

 

 

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