Intelligenza emotiva e performance: quando la scopri, non ti lascia più.
L’intelligenza emotiva, quando la scopri, non ti lascia più. Così è stato anche per me. Infatti, nel 1999, mentre stavo frequentando l’università, diedi una mano a una professoressa di inglese, molto capace dal punto di vista della comunicazione ma molto analfabeta dal punto di vista informatico. Il problema era per uno smanettone come me molto semplice e da manuale glielo risolsi in quattro e quattr’otto. Avendo avuto due genitori insegnanti, probabilmente l’anima del crocerossino formatore si era già ben sviluppata in me, così le insegnai tutto ciò che le poteva essere utile nella gestione dei mezzi informatici da ufficio. Per ringraziarmi della mia gentilezza, mi diede in regalo un libro, dicendomi con quella sua parlata canadese mezza francese “vedrai che questa lettura ti sarà utile nella vita e nel lavoro”. Non appena vidi la copertina fu amore a prima vista: Intelligenza Emotiva di Daniel Goleman. Nello stesso periodo, tra l’altro, avevo scoperto, collaborando con un caro amico, il potere della musica e delle immagini nel veicolare emozioni nei film e questo libro forse poteva chiudere un cerchio, regalandomi una chiave interpretativa a quello strano fenomeno per cui uno stesso spezzone di filmato cambiava totalmente significato emotivo grazie alla musica che gli veniva associata.
La prima lettura fu ostica. La domanda che mi piacque di più fu quella che guidò i primi studi di William James: “Scappi perché hai paura o hai paura perché scappi”. La domanda suona di Marzulliana memoria e per la sua immediatezza mi colpì duro. Anche perché la mia prima risposta dentro di me fu “Beh, che domande… Scappo perché ho paura, vedo un oggetto, mi spavento e decido di scappare”. Ancora oggi qualcuno, quando mi atteggio alla William James ponendola a mia volta durante i corsi o le sessioni di coaching, mi risponde anche un po’ scocciato “Beh, io sono razionale e scappo perché ho paura. Punto”. Fa strano pensare come Dio, la Natura o qualunque Essere sia da ciascuno di noi indicato come origine della vita, abbia creato un meccanismo davvero perfetto. La ragione, infatti, ci fornisce strumenti per decidere la scelta più vantaggiosa da un punto di vista razionale. In tantissime situazioni, questo meccanismo funziona, perché abbiamo il tempo per ragionare, ma quando il pericolo è troppo vicino diventa, purtroppo, troppo lenta e non può garantire risposte tempestive. È in queste situazioni che il cervello emotivo, la nostra intelligenza emotiva, entra in gioco permettendoci di rispondere velocemente e nella maggior parte dei casi anche efficacemente, alle diverse situazioni che affrontiamo. A volte, purtroppo no. Soprattutto quando non ci prepariamo in modo adeguato e dove la prima risposta scritta nei nostri circuiti non rappresenta una strada di successo. Un po’ come quando davanti a una lastra di ghiaccio pigiamo il pedale del freno invece di scalare e rischiamo così di perdere aderenza e andare dritti.
Se da un punto di vista evolutivo, questo sistema protettivo può risultare semplice da spiegare, perché le persone riconoscono il ruolo chiave delle emozioni in diversi momenti della vita sia in situazioni piacevoli che spiacevoli. Nel lavoro, invece, i retaggi del bastone e carota e del concetto di uomo sapiens sapiens non aiutano a vedere in modo chiaro, il ruolo chiave dell’intelligenza emotiva nel processo di sviluppo organizzativo. Per fortuna, gli Statunitensi hanno l’anima dei ricercatori e, non appena intuita l’importanza del sistema emotivo, decisero di studiare le più grandi aziende, quelle che erano in grado di raggiungere risultati distintivi nel lungo termine. Alcuni autori, particolarmente lungimiranti, avevano ideato degli strumenti diagnostici atti a verificare il quoziente emotivo delle persone. Questo quoziente si distingueva fortemente da quello intellettivo e pertanto la prima domanda che vollero verificare i ricercatori fu: “è più predittivo il quoziente intellettivo o il quoziente emotivo rispetto a una performance superiore?” Secondo voi che risultato venne fuori? Cosa scoprirono in sostanza? Goleman cita questi studi nel suo libro “Lavorare con intelligenza emotiva” e ci introduce nel mondo delle competenze emotive connesse con la possibilità di raggiungere performance superiori alla media. In sintesi, la scoperta eclatante fu che non sempre le prestazioni di maggior successo potevano essere garantite dalla persona con il quoziente di intelligenza più alto. La seconda evidenza fu che nei casi di maggior successo, invece, era sempre presente un quoziente emotivo sopra la media. In statistica, non si può esprimere una diretta correlazione tra questi due parametri, ma si può tranquillamente dire che “non si può escludere un legame profondo tra queste due dimensioni”. Quello che è certo, è che nella maggioranza dei casi di successo il livello di intelligenza emotiva si è dimostrato superiore. Ma cosa intendevano questi autori per quoziente emotivo?
- Si tratta della nostra capacità di essere consapevoli delle nostre e altrui emozioni in un qualunque momento, comprendendo i messaggi profondi contenuti in esse, di essere in grado di gestirle durante le prestazioni, ad esempio, le nostre attività di vendita, di public speaking, di gestione del feedback, individuando quali scelte fare nel qui e ora manageriale e di direzionare il nostro impegno nel lungo periodo al fine di determinare performance importanti per noi e per le aziende in cui abitiamo.
Davanti a una tale definizione, si manifesta spesso un po’ di ritrosia. Forse la formula con cui è stata lanciata da Goleman è stata interpretata come alchemica, quasi magica, o al meglio percepita come molto difficile da sviluppare. Chi è intelligente emotivamente, lo è tendenzialmente per sua natura… O non sembra facile crescere e autosviluppare queste competenze. Goleman spesso dice che per apprendere come fare teamwork serve diventare allenatori di una squadra sportiva. Non tutti hanno né tempo né la passione di farlo… Quindi vien dire… come fare per crescere?
Per me, e soprattutto, per gli studi che ho fatto grazie a Six Seconds (una delle associazioni mondiali che si occupa di diffondere l’intelligenza emotiva nel mondo) esistono diverse strade. Tutte fatte di azioni e comportamenti agibili nel quotidiano (non vi è nulla di male nello sperimentare la possibilità di diventare allenatori, ci vuole tempo e tanta dedizione che non sempre riesce a conciliarsi con la vita frenetica che abbiamo qui in Italia). Si possono ad esempio:
- Creare diari di bordo per scoprire i meccanismi che regolano le reazioni emozionali e le situazioni che le generano, inserendo le emozioni vissute giorno per giorno, quali eventi le hanno generate, quali pensieri le hanno accompagnate e quali azioni mi hanno spinto a fare
- Si possono fare esercizi di respirazione per modulare le risposte chimiche, magari facendo Yoga o Tai Chi
- Si può disegnare o scrivere testi che rappresentano il mondo nostro interiore per tirar fuori sensazioni, emozioni e stati d’animo (non è detto che si debbano condividere, può essere anche un esercizio personale e privato)
- È possibile leggere articoli sui principali siti che ne parlano o libri come il cervello emotivo di LeDoux o i libri di Goleman
Esistono diversi strumenti. Sta, quindi, alla volontà del singolo e all’importanza che decidiamo di dare al ruolo delle emozioni nella nostra vita. Che io sia un papà, un manager, un collaboratore, tutto ciò che faccio è figlio delle mie emozioni. Anche la scelta di concludere questa lettura è frutto di ciò che hai vissuto e stai ancora vivendo. Già che ci sei… Mi racconti cosa hai provato durante la lettura di questo articolo? Grazie!!!! Buon allenamento emotivo!